#75 - Carrowkeel.


Il video mostra inizialmente un cumulo di pietre, l'inquadratura si sposta lungo il profilo del cumulo finché compare, di spalle, un uomo vestito di scuro con un berretto. 
L'uomo è fermo e assorto davanti alla feritoia e sta armeggiando con la fotocamera, parrebbe che stia riprendendo le pietre, fino a che qualcosa lo induce a riscuotersi e proprio un attimo prima che la soggettiva gli sia addosso il video si interrompe.

La Lonely Planet metteva poche righe: Le Tombe Megalitiche di Carrowkeel.
Abbiamo lasciato da pochi minuti la N4 che porta a nord ovest, direzione Sligo. 
Una deviazione, una sosta, una possibilità. 
Qualcosa da vedere nel nostro primo giorno di Irlanda fuori da Dublino o almeno fuori da quello che pensi di aver capito di Dublino prima di aver visto il resto del paese.
Piove, ma piove spesso qui, anche se si tratta di una pioggia diversa dalla nostra. 
Il navigatore ci porta su una stradina tanto stretta da rendere insussistente l'obbligo di guida a sinistra, che non rimane che un'indicazione in caso di incroci. 
Dalle ultime case si sale per 15 chilometri, c'è il dubbio che ci sia un errore, ma siamo in fondo confidenti nelle indicazioni di un GPS che in ogni caso rappresenta la nostra migliore opzione e che a dire il vero pare sapere il fatto suo.
Finisce l'asfalto e il fondo diventa uno sterrato a dire il vero non difficoltoso, quando da lontano intravedo arrivare un'auto mi fermo dove c'è spazio, la aspetto: l'auto sparisce alla vista per un po', ci mette parecchio, ma arriva. Un cenno, un grazie e si riparte, si arriva ad un cancello chiuso con una corda, e una scritta "lasciare il cancello come lo si è trovato (leave gate as found)" allora lei scende, apre, aspetta che io passo per poi richiuderlo e legarlo, poi capiremo: pecore al pascolo. 
Si procede per qualche minuto e le incontriamo: pecore irlandesi. con le corna ricurve e nere, sulla strada, indifferenti al nostro passaggio, indifferenti alla pioggia, indifferenti alla pendenza del prato sul quale brucano.
Arriviamo ad un parcheggio, tre auto anzi due, visto che una si muove non appena la oltrepassiamo, chi la guidava stava aspettando che liberassimo la carreggiata per scendere. Sul suv e sull'altra auto, nessuno.
Poi il cartello: divieto di accesso alle auto, siete ad un chilometro dal sito. 
Piove. Ok, faccio due calcoli. Un chilometro di strada sterrata con la pioggia e la nebbia sono una scocciatura. Ma siamo arrivati fino a qui, non desistiamo, non ora. 
Non disponiamo ovviamente di calzature adeguate. In questo caso per calzature adeguate si intendono scarponcini da trekking ben suolati ed impermeabili. Ci guardiamo reciprocamente i piedi: sneakers io e converse lei: ottimo. Vedo un dubbio nel suo sguardo e chiedo: "decidi tu". "ho l'ombrello, andiamo". 
In realtà l'ombrello lo userà lei sola, io mi arrangio sotto il berretto da baseball del Trinity College di Dublino e una giacca antipioggia che tenevo in macchina, per i piedi vada come deve, tanto poi si asciugano. 
Dunque si va, non vediamo dove si deve arrivare, la descrizione sulla guida parla di un cimitero di 4 o 5000 anni, ci aspettiamo qualche masso impilato, forse delle pietre un po' imponenti, ma dalla strada vediamo solo una salita che si perde oltre la curva, nella nebbia. 
Il fatto che ci siano altre persone lassù ci rincuora, deve aver avuto un senso per altre persone, lo avrà anche per noi. 
Dopo circa dieci minuti di cammino siamo già titubanti, la strada ci porta oltre la curva e incrociamo una famiglia che scende, tutto bene, non c'è motivo di interloquire, "hello", mi sembrano sereni, tutto regolare, inoltre da poco più avanti compare un fuoristrada parcheggiato che idealmente fissa un nuovo traguardo: ci vorranno altri dieci minuti. "ce la fai? torniamo?" non dice nulla, continua a camminare.
Al termine di quei dieci  minuti siamo fradici, siamo accanto a quel fuoristrada e la via battuta ..finisce. 
Nella nebbia si intravede un sentiero che sale verso la cima. saranno cinquanta o sessanta metri di dislivello, da qui a su. I due uomini che stanno scendendo ci fanno capire che è lassù che si deve andare. E' dura, con le converse, è erba bagnata: "io torno indietro, vai tu, dammi le chiavi". io ci penso e decido di salire a dare un'occhiata, stimo dieci minuti per salire, rendermi conto, fare due foto e rientrare in tempo per raggiungerla prima che lei arrivi al parcheggio.
Così ci separiamo, io salgo veloce, lei riprende la via in discesa. Salendo incrocio i tizi che scendono e poi, più su, tre persone di cui due anziane signore, scendono tutti, pare, sarà per il tempo. 
Realizzo che sarò solo, lassù. tre auto, tre gruppi, tutti rientrati. non importa, tanto è un attimo. arrivo, guardo, scendo. In ogni caso ho con me il cellulare ma non ho alcuna voglia di verificare se c'è campo. Del resto quelle che ho appena visto scendere sono due signore davvero anziane e non sherpa tibetani.
La pioggia ora si fa più densa e ferma. L'erba è verdissima, sono dentro una nuvola. Il sentiero non è un sentiero, ma la semplice idea di direzione offerta da pozze fangose e zolle smosse in successione e ordine quasi sparso. Non rallento, la salita mi scalda, non ho problemi di fiato, solo faccio attenzione a non cadere, ho la fotocamera con me e non voglio rischiare. 
Sto per desistere quando mi guardo attorno, e nell'avvallamento vedo un mucchio di pietre che potrebbe essere effettivamente una tomba. quando lo raggiungo decido che è sicuramente un tumulo, non lo aggiro, ci passo sopra, e giunto dall'altra parte mi accorgo di una grossa pietra orizzontale sotto la quale vi è un'apertura, un'entrata. Comincia a fare un po' freddo, sono quasi in cima alla collina e sono letteralmente fradicio. Per entrare dovrei chinarmi, quasi accucciarmi e strisciare nel fango per poi trovarmi dentro una tomba. Non devo nemmeno decidere, non lo farò. Mi limiterò a scattare qualche foto dell'ingresso. Poi rientrerò, se mi sbrigo la raggiungo mentre è ancora per strada.
Estraggo la macchina dalla custodia, strano, il selettore è in modalità video, non la uso mai, ma decido che sì, che sarà un buono modo al rientro per mostrarle cosa si è persa. 
In realtà non faccio altro che inquadrare brevemente il tumulo, prima la sagoma, per poi ingrandire sull'ingresso. Ma sale il vento, all'improvviso una folata gelida mi investe alle spalle, sta aumentando di colpo, fantastico. Decido di smettere di filmare prima di dovermi ritrovare ad inseguire il mio berretto nuovo del Trinity College. 
Mi riorganizzo in fretta e comincio a scendere, quasi correndo, facendo attenzione a non scivolare, peso a valle.
Quando arrivo al parcheggio siamo gli unici rimasti. lei è già in auto: 
"ma sei qui da molto?" 
"venti minuti."
"venti? ma quanto hai corso? " 
"poco.. ma sei fradicio.. com'era? " 
"boh, niente di che, sassi. Poi ti mostro il filmato."

Il video mostra inizialmente un cumulo di pietre, l'inquadratura si sposta lungo il profilo del cumulo finché compare, di spalle, un uomo vestito di scuro con un berretto. 
L'uomo è fermo e assorto davanti alla feritoia e sta armeggiando con la fotocamera, parrebbe che stia riprendendo le pietre, fino a che qualcosa lo induce a riscuotersi e proprio un attimo prima che la soggettiva gli sia addosso il video si interrompe.
quell'uomo sono io. 
è da qualche notte che sogno. 
sogni strani.

#74 neve.



questi sono giorni defilati e dilatati.
gli impegni rarefatti, l'attesa della partenza, mentre tutti o quasi sono già andati.
la città calda, la città vuota, la città aperta.
ti trovi disteso, supino, con il tempo che ti passa sopra come fosse la chiglia di una nave che non sai dove stia andando, e tu acquattato sul fondo con i motori al minimo, tu che usi quel che serve giusto per restare vigile e l'aria non è un problema, non lo è stato mai.
apprezzi le diverse forme del silenzio, cerchi e trovi l'indolenza nei gesti e nei pensieri e la trasformi in un equilibrio fatto di forze fermate da una tua personale e privata moltiplicazione delle masse.

sarebbe un buon momento per cercare note nuove, mi dico.
però oggi il silenzio non è una tela candida che aspetta il pennello, il silenzio è una tela bella così: pronta e vergine come i prati dopo una notte di neve.
e poco importa se il caldo è di quelli da ricordare, io penso alla neve, a quello strato che mi accompagna dall'inverno e permette al mio lupo di sfuggire all'afa, in altura.

mi aspettano posti nuovi, ne ho bisogno.
mi aspettano posti che non vedo da prima di nascere, ché davvero non ho la certezza di poterli chiamare mai visti.
che quel che mi segna di certi viaggi non è quel che trovo, ma quel che scopro di aver sempre avuto, un'attenzione, un suono, un colore.
pezzi di pezzi di me. 
pezzi da legare.